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Da Jpo a capoprogetto, sempre con l’Africa

Niccolò Ronzoni, medico 34enne di Verona, è appena rientrato da Beira, in Mozambico, dove ha svolto una missione come capoprogetto, impegnandosi “dietro le quinte” degli ospedali.

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    «Mi chiamo Niccolò, ho 34 anni e sono un medico, appena tornato da una missione a Beira, in Mozambico, come capoprogetto. Conosco l’organizzazione di Padova dal 2018, quando sono partito come Junior Project Officer a Shinyanga, in Tanzania, per seguire il progetto “Test&Treat”, per migliorare il test e garantire il trattamento dell’Hiv.

    Nel 2019 ho concluso la specializzazione e durante la pandemia di Coronavirus ho lavorato all’ospedale di Negrar, in provincia di Verona… ma dopo un anno e mezzo avevo il desiderio di Africa!

    Ricoprire il ruolo di capoprogetto è stato particolarmente sfidante, perché sono un infettivologo e non avevo mai svolto un lavoro da amministrativo. Inizialmente, non è stato semplice occuparsi di gestione, di logistica, di amministrazione, di burocrazia e di reportistica. Ma devo dire che grazie ai colleghi e, una volta imparato meglio il portoghese, me la sono cavata e spero di essere stato d’aiuto».

    Le malattie degli “invisibili”

    «Una delle mie passioni sono le patologie neglette, che pochi conoscono non tanto perché siano rare, ma perché riguardano i più poveri, gli invisibili, gli ultimi. Un esempio sono le parassitosi elmintiche, che colpiscono le fasce più povere della popolazione; non manifestano grossi sintomi in acuto, ma provocano danni cronici molto gravi. Per tante di queste, basterebbe davvero poco, perché alcune si curano con farmaci dal costo contenuto. Ma sono malattie che non fanno rumore, per questo sono scarsi anche i finanziamenti e gli interessi da parte dei donatori.

    Durante la missione in Mozambico, ogni mattina visitavo i centri di salute periferici che il Cuamm supporta, per capire come funzionassero, se ci fossero difficoltà o miglioramenti da apportare. Dedicavo l’intero pomeriggio al lavoro in ufficio, per smaltire la montagna della burocrazia».

    Ho sempre cercato, poi, di “vivere localmente”, cioè di frequentare locali tradizionali, dove avrei potuto incontrare Mozambicani. Con i colleghi Jpo trascorrevo, spesso, i fine settimana e non poteva mancare la pizza fatta in casa, per ricreare i sapori italiani che, dopo un po’, possono mancare!

    Gli spostamenti in Mozambico non sono frequenti, a differenza della Tanzania e dell’Uganda. Viaggiare è poco sicuro e costoso, perciò sono stato stato stabilmente a Beira, ma ho approfittato di questo per conoscere a fondo la sua comunità».

    Essere CON l’Africa, grazie allo swahili

    «Non posso dimenticare un artigiano del legno di 50 anni, che vive nella Casa della Cultura di Beira ed è originario di un villaggio a Nord del Mozambico, dove si parla lo swahili. Avendo lavorato in Tanzania, ho imparato abbastanza bene questa lingua, così quando abbiamo scoperto di avere qualcosa di grande in comune, abbiamo iniziato a dialogare in swahili, cosa che ha fatto da ponte. Papà di cinque ragazzi, sia io sia i Jpo gli commissionavamo piccoli lavoretti per aiutarlo: statuine raffiguranti donne, pettini di legno, portachiavi. Un piccolo modo per dare dignità e valore al suo lavoro. Parlare in una lingua non coloniale, secondo me, è un buon modo per essere CON l’Africa!».

    La sfida per il futuro del Mozambico

    «Le risorse disponibili sono davvero poche, a fronte di una popolazione vasta e con tanti bambini. Ancora prima di sostenere gli ospedali, bisognerebbe agire per migliorare le condizioni di vita delle persone. Questa è la sfida per il futuro. I sistemi sanitari locali reggerebbero meglio se non ci fossero piccoli che si ammalano così tanto di malaria perché non usano la zanzariera, di tubercolosi perché vivono in troppi sotto lo stesso tetto. Le Ong possono fare tanto, ma serve anche la volontà da parte dei governi di cambiare la situazione, fornendo servizi igienici, fognari, l’accesso all’acqua, in primis. Su alcuni fronti, il Mozambico è evoluto rispetto ad altri Stati africani: ad esempio, sul diritto al lavoro, esistono i sindacati, non si può lavorare 24 ore al giorno perché questi intervengono. Su altri aspetti, invece, siamo ancora indietro. Le condizioni igienico-sanitarie in cui si vive, soprattutto nelle città, sono desolanti. La popolazione tende ad abbandonare i villaggi per aggregarsi nei centri urbani, senza considerare che lì vengono meno tutte le piccole garanzie che avevano in campagna. Si creano aggregazioni che portano a malattie. Nel villaggio, almeno, è più facile avere un tetto sopra la testa, seppur di paglia e di fango. In città, invece, il rischio è vivere in un sovraffollato mini-appartamento o, addirittura, per strada. Nei centri urbani manca, spesso, la comunità ed è più difficile sostenersi. Nelle campagne si vedono la povertà, la scarsità dei servizi sanitari, perché tutto è centralizzato, ma non c’è quasi mai la miseria come nelle capitali, dove tanti soffrono per strada. Purtroppo, se un medico è bravo e desidera fare carriera, va in città, perciò nelle aree rurali non resta nessuno a curare.

    Non appena possibile, ripartirò. La Tanzania e l’Uganda restano i Paesi che sento più casa, ma la curiosità di vedere nuove terre e il desiderio di essere sempre CON l’Africa non mancano!».

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