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Beira Le fasi di un sogno

Il racconto di Raimondo, di rientro dalla sua esperienza come Jpo dal Mozambico, tra meraviglia, durezze del quotidiano e tanto lavoro di squadra

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    «All’inizio sentivo di voler fare di tutto, come se avessi paura di lasciarmi sfuggire qualcosa dalle mani».

    L’arrivo a Beira, nel buio della notte, il sorriso dei tutor ad accoglierlo, e poi la mattina dopo, le strade brulicanti di donne e bambini: per Raimondo Castaldo, Jpo a Beira, i primi giorni sono stati dominati da una sensazione di meraviglia. Per i giovani specializzandi che ogni anno partono con il Cuamm, diventare Junior Project Officer significa vivere per alcuni mesi dentro un ospedale africano, lavorando fianco a fianco con colleghi locali, affrontando limiti e scoperte quotidiane. È un’esperienza formativa, ma anche profondamente umana, che lascia il segno in chi la vive.

    «Con i ragazzi che hanno fatto la mia stessa esperienza — racconta — diciamo spesso che ci sembra di aver vissuto un sogno e di esserci poi risvegliati all’improvviso. È stata un’esperienza straordinaria, e la distanza e il tempo passato dal ritorno amplificano ancora di più questa sensazione».

    Il primo impatto con il Berçario, la neonatologia dell’ospedale, è rimasto impresso nella memoria:

    «C’era un odore fortissimo, il rumore costante delle macchine, dei ventilatori, delle pompe che suonavano, degli allarmi a volte ignorati. Abituato ai silenzi degli ospedali italiani, mi sono ritrovato in un rumore di fondo continuo, intenso».

    Entrando nel vivo dell’esperienza, la meraviglia e lo spaesamento lasciano spazio a molte altre sfumature, tra le quali durezza del quotidiano. «A fine turno tornavamo a casa provati dall’intensità delle giornate, quasi pietrificati dalle situazioni che ci trovavamo ad affrontare», racconta Raimondo. È in questi momenti che il lavoro accanto ai colleghi locali diventa il dono più grande. Raimondo racconta l’episodio di una comunicazione difficile, condivisa con una collega mozambicana:

    «Dovevo dire a una madre che il suo neonato non ce l’aveva fatta. L’ho fatto insieme a lei. Usciti dalla stanza, era commossa. Nemmeno per me è naturale dirlo, anche se ci sono abituata’. Mi ha colpito la loro forza, il loro non arrendersi mai, anche di fronte a una realtà che per loro non finisce dopo sei mesi ma dura una vita».

    Col passare dei mesi, grazie alle tante storie di luce e al lavoro di squadra, si raggiunge una nuova fase: quella della serenità.

    «La smania di voler fare tutto è stata sostituita dalla tranquillità. Mi sentivo a casa. Il Mozambico mi ha un po’ guarito. Impari che salutare con un sorriso, entrare in reparto con leggerezza, sono gesti fondamentali. Creano un rapporto umano prima ancora che professionale».

    Una mattina, racconta, lascia un termometro a una mamma per misurare la temperatura del figlio. Il giorno dopo, lei gli mostra il muro su cui ha segnato tutte le rilevazioni. «Aveva preso così sul serio quella responsabilità da misurare anche la temperatura degli altri bambini per riferirmele».

    Incontri, volti, voci che rimangono nel cuore e che accompagnano il momento del ritorno, per Raimondo quello più difficile.

    «Non volevo tornare, non mi sentivo pronto. Addirittura, ho posticipato il rientro di qualche settimana. A chi partirà, direi di non farsi raccontare troppo delle esperienze degli altri. Andate e basta, senza aspettative. È un percorso che ti dà qualcosa di diverso a seconda di chi sei, del momento che vivi. Ciò che è certo è che trasforma lo sguardo».

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