Conquistare la fiducia
Senza mollare la presa dal volante, Kamal si gira verso i sedili posteriori del Toyota e urla qualcosa nella mia direzione. Il rumore del motore su di giri mi impedisce di capire cosa dice, ma lo posso immaginare benissimo: ogni volta si lamenta perché lo costringo ad avventurarsi lungo strade che anche una moto faticherebbe a percorrere.
Ormai da mezz’ora ci muoviamo in mezzo alla foresta e siamo tutti provati dai continui scossoni dovute alle buche. Le piogge di questo periodo, inoltre, rendono il fondo fangoso, e c’è il rischio che da un momento all’altro la jeep rimanga intrappolata.
La nostra destinazione è un villaggio sperduto nel sud della Sierra Leone e viaggio assieme a un team composto da Sister Sannoh, la referente del distretto sanitario, Mussah, che si occupa di eventi comunitari, Jalloh, esperto in vaccinazioni, Sister Ellen, l’ostetrica dell’ospedale, e un consigliere politico del distretto dal nome beneaugurante, Mr Fortune.
Ognuna di queste persone ha una funzione diversa e ben precisa, ma abbiamo tutti un obiettivo comune: conquistarci la fiducia degli abitanti del villaggio, monitorare il loro stato di salute e convincerli in caso di bisogno a utilizzare le strutture sanitarie più vicine.
Fra i nostri compiti c’è infatti quello di incontrare le donne nei villaggi, visitarle, convincerle a sottoporsi alle visite prenatali e a fidarsi di noi. Anche se in Sierra Leone sono meno che altrove, le resistenze esistono e sono sia culturali che pratiche: non è facile fidarsi di qualcuno che non si conosce, né abbandonare la famiglia o affrontare i costi di un viaggio così breve ma così faticoso.
Ci sono alcune donne più a rischio ed è nostro dovere visitarle e informarle: chi abbia già portato a termine numerose gravidanze, ad esempio, potrebbe incorrere in un’emorragia, ma bisogna prestare la stessa attenzione, anche se per motivi diversi, a quelle alla prima gravidanza, alle adolescenti, o alle donne più basse di un metro e cinquanta.
Quando ormai abbiamo la sensazione che il viaggio potrebbe non finire più, gli alberi attorno a noi diradano, la strada si allarga e arriviamo al villaggio, anche se è difficile definirlo così. Sono poche capanne, costruite con fango e paglia, raccolte attorno a un chiostro nel quale le persone si trovano per gli incontri comunitari. Oggi siamo qui per indagare su una mamma che è morta durante il parto, e vogliamo scoprirne le cause. Ci basta purtroppo poco tempo, però, per scoprire che Fatmata, così si chiamava la donna, è morta perché troppo distante dal centro di salute. Alle volte le complicazioni non si riescono a prevedere e affrontare le emergenze in contesti così privi di mezzi non è mai semplice.
La notizia ci scoraggia, ci guardiamo attorno disorientati e abitati da una sensazione di impotenza. In quel momento, penso che io stessa forse non avrei avuto il coraggio di avventurarmi fuori da questo posto, soprattutto con un bambino in grembo.
Scacciamo presto questi pensieri, però, perché c’è ancora da fare. Visitiamo un’altra donna, che si chiama Mamie: le riscontriamo la pressione troppo alta e i piedi molto gonfi. Sono segnali che ci allarmano. Una preeclampsia potrebbe mettere a rischio non soltanto la vita del bambino, ma anche quella della madre. Organizziamo dunque un trasferimento in ospedale, dove i medici decideranno se intervenire con il cesareo e se ricoverare la donna e sottoporla a una cura con i farmaci.
Il nostro lavoro qui è finito, cerco con gli occhi Kamal per avvisarlo ma lo trovo già seduto al posto di guida. Anche lui mi guarda, sorride e avvia il motore, pronto ad accompagnarci a un altro villaggio.
Francesca Tognon
Esperta di salute pubblica
Scopri di più sul programma “Prima le mamme e i bambini. 1.000 di questi giorni“