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Parole che sono le nostre

Parole che si fanno cura, ogni giorno. Dai racconti dei nostri operatori sul campo ne abbiamo scelto alcune per ribadire l’impegno che ci ispira da oltre 70 anni e con cui vogliamo salutare l’anno che abbiamo vissuto insieme e che si chiude, tra fatiche, sfide e speranze.

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    Parole che si fanno cura, ogni giorno. Dai racconti dei nostri operatori sul campo ne abbiamo scelto alcune per ribadire l’impegno che ci ispira da oltre 70 anni e con cui vogliamo salutare l’anno che abbiamo vissuto insieme e che si chiude, tra fatiche, sfide e speranze. L’augurio è quello di continuare renderle gesti, atteggiamenti, azioni concrete, insieme, in questo abbraccio dall’Italia all’Africa, a fianco di chi ha più bisogno, in particolare di mamme e bambini.

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    PICCOLO

    «Questa seconda volta in Angola è stato diverso. Avevo l’impressione di dover chiudere un cerchio, c’ero stata anni fa ma Chiulo non l’avevo vista. L’Angola è il Paese che ti provoca di più dal punto di vista personale e di lavoro, perché là le condizioni sono disperate. È una sfida incredibile. Sono tornata in un posto diverso e in un periodo diverso. Dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi mi sembrava abbastanza uguale, la mancanza di concreti progressi, aggravati dalla situazione del Covid, mi ha lasciata perplessa. Il momento più difficile è quando ti muore un bambino. Ne muoiono tanti, ma quando non ce la fa qualcuno su cui invece credevi, ci resti malissimo; al contrario quando va tutto bene e riesci a restituirlo alla madre è bellissimo, ti ringraziano».

    Alberta Valente, pediatra a Chiulo, Angola
     

    Limite

     
    LIMITE

    «Lì non potevamo fare altro che lavorare, ed è diversissimo dal lavoro a cui siamo abituati in Italia. I primi giorni sono stati pazzeschi, perché in Etiopia c’è un altro modo di pensare e vivere rispetto a qui. Le prime cose che pensi quando fai una diagnosi di solito, non sono quelle che devi pensare quando sei là. In Italia abbiamo un sacco di cose che diamo per scontate. Ti arriva una signora con valore di emoglobina 2, che è un miracolo se sta in piedi e ti dice “mi sento un po’ un stanca”. Vedi estremi che da noi non vedrai mai. E le fai fare le analisi delle feci e scopri che ha i vermi, perché vive in campagna e beve l’acqua del fiume: qui sarebbe impensabile una situazione del genere. Poi ad esempio ho visto vari ictus: qui davanti a un ictus devi fare la tac, se è di un tipo hai una cura, se è di un altro ne hai un’altra, opposta. Là non hai la possibilità di fare la tac. Cosa puoi fare? Riconosci e lavori sul limite».

    Eleonora Evangelisti, specializzanda in medicina interna e d’emergenza-urgenza rientrata dall’Etiopia, Wolisso
     

    Incontro-focus
    INCONTRO

    «È andata molto bene, dal punto di vista medico e professionale è stato molto formativo, ho acquisito competenze anche molto lontane dalle mie specifiche, perché faccio oncologia, per cui di solito incontro solo pazienti neoplastici mentre a Wolisso visitavo bambini dai 5 anni in su, con tutte le patologie che in Italia ci siamo dimenticati. Dal punto di vista relazionale è stato molto arricchente e straordinario da molti punti di vista: incontri realtà molto lontane da te, in un rapporto medico-paziente incredibile a partire dal fatto che non parliamo la stessa lingua, per cui la solita comunicazione viene meno. Non è il massimo arrivare al letto del paziente e non sapere cosa dirgli, ma imparare anche solo un po’ di una lingua è comunque complesso, anche perché sono talmente tante che ogni paziente parla in modo diverso, per cui gli infermieri devono tradurre. Poi capisci che la comunicazione è tutta occhi, mani, gesti e bastano questi scambi se sei bravo a trasmettere i messaggi giusti. Così dal punto di vista relazionale con il personale del luogo, impari come rapportarti, come entrare in punta di piedi, ma far sentire la tua voce quando c’è bisogno, mettere del tuo per la parte di esperienza nel tuo ambito e apprendere dalle esperienze degli altri. È stato bello il rapporto con i colleghi più giovani, cercare un po’ di indirizzarli nella via giusta».

    Alberto Puccini, Jpo di oncologia medica presso l’Università degli Studi di Genova, rientrato dall’Etiopia, Wolisso
     

    Pazienza

     
    PAZIENZA

    «Più bello per me è stato entrare proprio nel campo rifugiati. Per due motivi: il primo è che mi interessa molto il tema e il secondo è perché sono stato colpito da condizioni positive. Avevo l’idea dei campi rifugiati in Grecia, dove la dignità umana è completamente azzerata; qui invece era una realtà in cui c’è sovraffollamento, ma si rispetta la tradizione della popolazione, le tende sono costruite secondo le consuetudini locali. E non è una cosa scontata, riuscire a mantenere questo livello. La fatica è stata la presa di coscienza delle difficoltà della cooperazione allo sviluppo, per cui per fare questo servizio devi accettare l’idea che poco è meglio di niente. Magari tu pensi di poter cambiare le cose ma non le cambierai da un giorno all’altro. Fino a che la cultura dominante è quella occidentale, non si potrà mai avere una vera redistribuzione della ricchezza ed è impossibile immaginare che quelle condizioni possano cambiare rapidamente. Ci si allena all’idea che poco è meglio di niente».

    Roberto Benoni, Jpo di igiene e medicina preventiva dell’Università di Verona, rientrato dall’Etiopia, Gambella