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L’unica cosa che non ha limite

La testimonianza di Elita Zamperetti, che ha trascorso sei mesi a Bangui, in Repubblica Centrafricana, come specializzanda in pediatria.

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    «Il rientro è sempre il momento più complicato. Passi da un mondo senza progettualità e senza orologio, a uno in cui tutto è programmato e incasellato al millimetro. Sono stati mesi durissimi. Molto più difficili di quello che pensavo. Mi hanno messo alla prova dal punto di vista fisico, perché spesso mancavano la corrente e l’acqua, e poi era molto caldo. Ma anche dal punto di vista umano. Ho vissuto situazioni drammatiche che non si cancellano facilmente. Lì, a Bangui, la morte dei bambini è all’ordine del giorno».

    Gli occhi limpidi di chi ha interiorizzato quanto vissuto, un po’ lucidi a tratti con la voce incrinata a raccontare ricordi, belli, ma anche tristi, ricordi che pesano molto, Elita Zamperetti fa un bilancio positivo dei sei mesi trascorsi nella capitale della Repubblica Centrafricana. Ora è rientrata e da specializzanda in pediatria a Padova al quarto anno, deve concentrarsi sul periodo finale e si sta indirizzando verso un ramo molto particolare e poco esplorato della cura dei più piccoli: quello dei maltrattamenti.

    «Il valore del tempo: questo il primo insegnamento che mi porto a casa. Qui sembra non avere significato, tutto scorre veloce, siamo proiettati sul domani e dimentichiamo il presente. In Centrafrica, paese insicuro, dalle mille contraddizioni, tra i più poveri al mondo, il tempo presente viaggia lentamente anche se devi gestire un’urgenza, anche se ti trovi davanti una situazione clinica drammatica in cui ogni secondo è prezioso. La realtà a quelle latitudini è che l’urgenza non esiste! Non puoi permetterti di gestirla, non ci sono i mezzi e le possibilità. Perché il bambino arriva troppo tardi, perché mancano i farmaci, perché non hai adeguate strumentazioni, perché mancano i medici e gli infermieri. E così impari dai colleghi locali, dalle mamme in ospedale, da quanti incontri che la loro vita è rassegnazione e fatalismo, molto spesso. Che questo è il loro modo di difendersi di fronte a un dolore troppo grande».

    E prosegue: «Ti fa rabbia, certo, perché sembra che non ci provino fino in fondo a risolvere la situazione, a fare tutto quanto è possibile, ma è allo stesso tempo un grande insegnamento sul nostro limite umano. Il senso del limite: è questo un secondo insegnamento che mi porto a casa. Il limite professionale, perché non sei preparato a tutto e non puoi avere risposta per ogni cosa, non puoi avere competenze infinite, non sarai mai preparato abbastanza. Il senso del limite umano perché, a un certo punto, devi capire che ti devi fermare; il limite delle lacrime di una mamma che, a un certo punto quando ha perso magari 3, 4 figli, finiscono. L’unica cosa che non ha limite è il sorriso spontaneo di un bambino, che si accende all’improvviso, quando meno te lo aspetti e ti rimette di nuovo in piedi. Tutti i pezzi che si erano sgretolati, tutti quei muri che ti sei trovata davanti, acquistano un senso. L’unico senso per cui sei lì: quello del fare la pediatria per davvero, ti fa ritrovare la passione e ti aiuta a tirare fuori tutte le tue risorse per salvare quel bambino».

    «Una cosa bella che mi ha lasciato questa esperienza, poi, è il senso della famiglia. Parlando con una mamma mi ha detto: “i bambini sono un tesoro, a prescindere, sono ricchezza”. Nonostante l’estrema povertà in cui vivono, un bambino è comunque un investimento nel futuro, perché lui un domani si prenderà cura di te. La prospettiva è completamente ribaltata rispetto alla nostra. Qui progettiamo la famiglia, i figli, tutto deve avere una scadenza. Invece a loro non importa se si fa con 1 euro per cinque si farà anche per sei, per sette in qualche modo si fa. E poi una cosa straordinaria è la grandissima solidarietà tra le mamme che sono ricoverate insieme ai piccoli in ospedale. Si aiutano sempre, se una mamma si è allontanata, e un piccolo piange, ne arriva un’altra che lo prende in braccio e lo calma».

    Di cosa ha più bisogno oggi il paese? «Di pace. C’è bisogno di non pensare più alle armi e iniziare a pensare un po’ più alla gente».