Medici con l'Africa Cuamm

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Hiv e giovani a Shinyanga

Si è concluso il progetto “Migliorare lo stato di salute e benessere degli adolescenti e dei giovani adulti affetti da Hiv”, realizzato dal Cuamm insieme all’Università di Firenze e con il sostegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Ne emerge un quadro preoccupante su cui c’è molto ancora da fare.

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    «La mia mamma mi ha portato a casa della nonna, lontano da casa nostra. Quando siamo arrivati, la nonna non c’era e la mamma mi ha scaricato lì, da solo. Mia nonna, una volta tornata, mi ha trovato in lacrime. Ha deciso di curarmi con le medicine tradizionali. Ma stavo sempre male. Non sapevamo che mia mamma era sieropositiva, perché quando mia nonna le chiedeva di me, diceva che ero sano. Ho iniziato la scuola a 10 anni, ma stavo molto male. Mi gonfiavo, anche nelle parti intime e persino urinare cominciava a essere difficile. Nel frattempo mio papà ha iniziato a stare male. Il nonno è andato in ospedale a prendersi cura di lui che poi è morto. Ho scoperto di essere sieropositivo mentre frequentavo la classe sesta».

    La voce di Josef (nome inventato) è rotta quando ci racconta la sua storia, lo sguardo lucido. Josef ha 16 anni. Vive a Shinyanga, in Tanzania, dove Medici con l’Africa Cuamm, in collaborazione con le autorità locali e l’Università di Firenze e grazie al sostegno di Aics ha realizzato l’intervento “Migliorare lo stato di salute e benessere degli adolescenti e dei giovani adulti affetti da Hiv”. In Tanzania, 1,7 milioni di persone vive con l’Hiv. L’aderenza al trattamento da parte degli adolescenti e dei giovani è più bassa rispetto alla media degli adulti.

    Medici con l’Africa Cuamm, ancora una volta, ha deciso di partire dai bisogni reali della gente. Di partire dall’analisi e dallo studio della situazione, dal raccogliere dati, dal parlare e incontrare i giovani sieropositivi: questi i punti essenziali del progetto che ha permesso di avere un quadro della realtà e della effettiva aderenza alle terapia.

    Sono stati 247 i giovani che hanno partecipato all’indagine, attraverso gruppi di ascolto e interviste approfondite che hanno permesso di andare a fondo della percezione di ciascuno. Indicatori misurati: lo stato di ansia e di depressione derivati dalla malattia e l’aderenza alla terapia. Il quadro emerso è preoccupante: la prevalenza di depressione e ansia si attesta al 13,1% dei giovani testati, arrivando a punte del 20% nelle donne.

    La ricerca qualitativa ha evidenziato come i ragazzi sieropositivi debbano superare barriere altissime con ripercussioni negative sull’aderenza alla terapia e sulla loro salute mentale. Conseguenza concreta di questo sono il crescente bisogno di essere supportati, dalle famiglie, dai propri cari, dagli amici, dagli insegnanti e dagli operatori sanitari, per non sentirsi soli. I giovani hanno anche molti dubbi sull’autotest perché di fronte a una eventuale positività, gli altri giovani non saprebbero come comportarsi.

    «La questione dell’autotest può essere negativa per le persone che non sono state istruite correttamente sull’Hiv. Non sempre si ha consapevolezza dell’HIV, per esempio, nel villaggio qualcuno non ha un’istruzione, non è andato a scuola. Una persona del genere pensa che, una volta trovata positiva, sia tutto finito perché non sa che esiste una terapia per l’Hiv. Alcuni possono anche decidere di suicidarsi a causa di questi test», racconta Hanna, di Ngokolo. E Joyce precisa: «Chi viene stigmatizzato si sente inutile e quando si tratta della famiglia si sente più un ostacolo. Questo provoca un’autostima bassissima. Ti convinci che non troverai nemmeno un uomo che ti sposi e crolli. Si arriva anche a trascurare quelle piccole azioni che ti permettono di guadagnare qualcosa, senti di non valere nulla e non senti il bisogno di continuare, nemmeno con le medicine».

    L’indagine è stata presentata i primi di settembre a Shinynaga con un evento che ha visto la partecipazione delle autorità locali e di una delegazione dell’Università di Firenze.

    «A Shinyanga, oltre a far parte del team di ricerca della mia università, ho potuto contribuire alla presa in carico delle persone che vivono con Hiv, lavorando fianco a fianco con colleghi preparati, affidabili e sempre pronti a cercare di migliorarsi – ha detto Marta Tilli, specializzanda in malattie infettive di Firenze e Jpo Cuamm qui a Shinyanga –. Essere l’unico medico straniero è stata una bella sfida; ma ogni problema si è risolto grazie a pazienza, rispetto e ascolto. Da questo anno in Tanzania porterò con me storie, voci e pensieri di amici, colleghi e pazienti, che mi hanno permesso di mettere a fuoco cosa significa essere una cooperante: rimanere umile, ricordare ogni giorno la fortuna avuta nel nascere in una parte privilegiata del mondo, e passare sempre il testimone a chi è vicino a me, rendendo il più possibile ognuno protagonista della sua storia e padrone del suo paese, come i giovani che ho incontrato».