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A lezione di resilienza in un’Etiopia segnata dalle guerre

Matilde Conti, specializzanda in medicina di emergenza, racconta la sua missione nei campi di sfollati interni per il conflitto in Tigray, a Debre Berhan, nella regione dell’Amhara.

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    «In Etiopia non si sente parlare spesso della guerra in corso nel Paese, probabilmente perché le persone preferiscono evitare il confronto su tematiche che tendono a vivere in modo “privato”. L’impatto del conflitto sulle dinamiche quotidiane, però, si vede con chiarezza».

    Con queste parole inizia il racconto di Matilde Conti sulla missione che sta svolgendo in Etiopia in un periodo di grande instabilità, dovuto agli effetti diretti e vicini della guerra in Tigray, ma anche di quelli indiretti e lontani della guerra in Ucraina. Le conseguenze degli scontri sono visibili ogni giorno, dentro e fuori gli ospedali.

    Le molteplici problematiche, tuttavia, non hanno fermato Matilde che desiderava formarsi professionalmente nel settore della cooperazione sanitaria internazionale in Paesi a risorse limitate. Per questo, ha colto l’occasione del progetto Jpo (Junior Project Officer) del Cuamm, rivolto agli specializzandi in medicina.

    Così la partenza per l’Etiopia: «Un’esperienza ricca e impegnativa, con alcune inevitabili contraddizioni e con tutte le limitazioni di cui si deve prendere atto, ma piena di incontri, di situazioni nuove, con l’opportunità di approcciarmi al mio lavoro in un modo diverso e di apprenderne le unicità.

    Il primo impatto è stato forte, visitando durante la prima settimana i campi per IDPs (Internally displaced people), ovvero gli sfollati interni, conoscendo i vari operatori dei Mobile Health and Nutrition Teams, attivi grazie al sostegno del Cuamm, di Who e di Goal Ethiopia. Ma osservarli operare e confrontarsi è stato fondamentale per capire le esigenze di questi campi e le opinioni che ci si forma lavorandoci. Indispensabile è stato anche camminare tra le persone per comprendere le condizioni in cui versa la loro vita appesa ad un filo. Il primo campo dove sono stata, China Camp, ospita 13.000 persone in 4 capannoni abbandonati: la folla che cerca una via di fuga a questa condizione assurda, le centinaia di bambini che corrono, le file di pazienti che attendono il loro turno per ricevere le poche cure disponibili sono il primo e il più persistente dei ricordi che conservo dell’Amhara».

    Per Matilde la difficoltà più grande è stata imparare a convivere con la sensazione di impotenza davanti a desolanti scenari, quando si è resa conto della grande sproporzione tra i bisogni dei singoli e le risorse disponibili: «Per un sanitario, con qualsiasi titolo, confrontarsi con gli IDPs significa necessariamente poter fare sempre troppo poco, avere troppi pochi mezzi ed accorgersi di quanto l’aspetto strettamente sanitario sia solo una piccola parte delle esigenze di donne e uomini così fragili».

    Tuttavia, i ricordi di Matilde non sono soltanto negativi: «Sono difficili, certo, ma vanno combinati agli aspetti positivi dell’esperienza, alla disponibilità e alla collaborazione del personale sul campo con cui ho condiviso esperienze, idee, necessità ed emozioni. A questo si aggiunge tutto quello che ho imparato negli ultimi mesi. La lezione più grande è sulla resilienza e arriva proprio da chi ha più bisogno di aiuto. Gli sfollati interni tentano ogni giorno di ricostruirsi, di crearsi almeno delle abitudini ed un quotidiano, anche lontano da casa, dopo aver perso gran parte di quello che possedevano, spesso anche le proprie famiglie. Mi insegnano un grande spirito di adattamento, il vero istinto di sopravvivenza, la capacità di apprezzare le piccole cose!».

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