Medici con l'Africa Cuamm

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Mano nella mano con i bambini del Sud Sudan

Paolo Franceschi è tornato in Africa, tanto tempo dopo il 1985, quando assieme alla moglie Marina, ha svolto la sua prima missione con il Cuamm. Che cosa è cambiato?

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    «Tutto! Tranne il valore in cui credo: lo sviluppo, sul lungo periodo, di un sistema sanitario efficiente, accessibile alle mamme e ai bambini che vivono nei villaggi remoti e costruito, passo dopo passo, grazie alla collaborazione tra Italia ed Africa. Rispetto al passato, la cooperazione sanitaria internazionale si è evoluta, anche se, talvolta, l’eccesso di burocrazia rallenta qualche avanzamento. Gli ospedali delle aree rurali presentano le maggiori problematiche. E il Sud Sudan, in particolare, ha un profondo bisogno di pace.

    La mia prima missione con il Cuamm risale al 1985. Sono partito con mia moglie Marina, medico come me, per la Tanzania, nell’ambito del servizio civile alternativo, in sostituzione del servizio militare. Abbiamo vissuto lì per due anni e tre mesi. Per motivi familiari, poi, siamo stati lontani fisicamente dall’Africa, ma mai con il cuore! Oggi ho colto l’opportunità di lavorare per altri due anni come capoprogetto e responsabile del reparto di medicina generale dell’ospedale di Lui, in Sud Sudan. Tante le soddisfazioni, come l’inaugurazione della banca del sangue.

    L’approccio “con” l’Africa è quotidiano. Penso alle occasioni di confronto e di aggiornamento sui vari aspetti della clinica e dell’infermieristica. L’obiettivo sempre lo stesso: migliorare la qualità dello stato di salute dell’intera popolazione. I bisogni sono infiniti e le risorse mai abbastanza, anche per questo la mia attività si è alternata tra il reparto di medicina generale e il management dell’ospedale. I medici sono sotto organico, allora la mia giornata tipo è stata questa: al mattino in reparto, al pomeriggio in ufficio. Poi, quando il pediatra era in ferie, coprivo il suo posto, perché il mio collega aveva già la chirurgia e l’ostetricia; sarebbe stato eccessivo affidargli altri reparti.

    Quando al mattino ero in ospedale, il tempo scorreva in fretta, in compagnia dei pazienti, talora giocando brevemente e scherzando con i piccoli della pediatria. In coordinamento, invece, i pesi da sostenere sono stati maggiori. Si è trattato della mia prima esperienza di management sanitario e ho percepito le conseguenze dovute alla pandemia da Covid-19 e alla guerra in Ucraina: l’aumento dei prezzi è evidente. L’ospedale di Lui ha bisogno di aiuti economici, ma le preoccupazioni che abbiamo in Europa distolgono l’attenzione da tutto questo. Sono tanti i sogni nel cassetto. L’ospedale di Lui, l’unico della Contea di Mundri, ha molte potenzialità, dobbiamo dare il massimo per esprimerle. Inoltre, la scarsità delle piogge, cominciate con circa due mesi di ritardo, ci ha dato e ci sta dando tuttora molte preoccupazioni, perché un ospedale ha bisogno di moltissima acqua non solo per i bisogni primari di chi ci lavora e ci vive, ma anche per il suo quotidiano funzionamento (la pulizia dei reparti, la lavanderia e la sterilizzazione dei materiali chirurgici).

    I miei colleghi sul campo, africani e italiani, sono stati come figli, tutti così giovani! Ricordo tre 30enni italiani molto professionali e il Patron, un keniota con alle spalle una lunga esperienza in altre ong, con cui mi sono trovato sempre sulla stessa lunghezza d’onda.

    La mia speranza per il futuro del Sud Sudan è simboleggiata dai bambini che ho incontrato nel reparto di pediatria di Lui: all’inizio, non appena vedevano l’uomo bianco, con il volto in parte coperto dalla mascherina, si spaventavano. Ma, piano piano, si lasciavano prendere per mano e mi seguivano tra le stanze per fare un giretto, dopodiché li riportavo dalle mamme. L’augurio è che crescano in un Paese che possa offrire loro qualcosa in più di quel che sta offrendo oggi ai loro genitori. Mi sento ancora mano nella mano in quei corridoi della pediatria di Lui, per un futuro migliore del Sud Sudan».

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