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Imparare insieme a fare comunità

L’esperienza di Virginia Casigliani, Junior Project Officer in Igiene e medicina preventiva, rientrata dal Mozambico, dopo sei mesi trascorsi a Beira.

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    «Come posso descrivere questo Paese? Mi viene in mente Ilha de Moçambique, un’isola al largo della costa settentrionale del Mozambico, dove ci si accorge subito di cos’è stata la colonizzazione. L’isola è divisa in due parti: la “città di pietra” dove le chiese, le moschee e le abitazioni dei coloni portoghesi sono edificate in sasso e la “città macuti”, le foglie della palma da cocco, utilizzate per costruire i tetti delle case della popolazione locale. È evidente la disuguaglianza che ancora sussiste, anche se adesso il colonialismo sta assumendo altre forme, a volte più subdole. Emblematico, in questo senso, anche il Grand Hotel di Beira, nato come hotel di lusso, oggi diventato il più popoloso e grande edificio occupato al mondo, abitato da oltre 4.000 persone. Quando si entra è impressionante vedere il contrasto fra la luce e il buio, che per me rappresenta l’iniquità del Mozambico. Allo stesso tempo, è uno spazio di comunità, di solidarietà e di sostegno reciproco fra i più vulnerabili.

    La mia esperienza professionale e umana è stata incredibile. Ho conosciuto un sistema sanitario completamente diverso, così come gli interventi di salute pubblica che cambiano, allontanandosi dalla città alle aree rurali, perché mutano il contesto e i determinanti di salute».

    Quello che non si vede…

    «Sono i Saaj, centri di salute sessuale e riproduttiva. Ho assistito a focus group sull’Hiv con gli adolescenti, con donne incinte e agli incontri nelle scuole, fondamentali per calibrare l’intervento sulla base dei bisogni dei pazienti. Si cerca di fare un grande lavoro di empowerment della persona. Una delle complessità maggiori è garantire che i bambini seguano le terapie correttamente».

    Quello che non si vede…

    «È il ruolo degli attivisti comunitari a Beira. Ricordo una volta in cui, mentre osservavo il lavoro di uno psicologo locale, è arrivata una bambina di 11 anni che aveva difficoltà a rispettare la terapia prescritta e a sottoporsi alle visite regolarmente. Così, abbiamo pensato ad un gioco che la potesse aiutare a gestire il trattamento, cosa non semplice per una piccola, che ha ben altri pensieri: ogni giorno, dopo avere preso i farmaci, doveva colorare una casellina di un percorso, dove l’ultima era l’unità sanitaria in cui si sarebbe dovuta recare per i controlli periodici e il ritiro dei farmaci. In Mozambico esiste un sistema di chiamate gestito dagli attivisti per ricordare ai pazienti di passare all’unità sanitaria per ritirare i farmaci e per fare tornare in trattamento donne e uomini che lo hanno abbandonato».

    Durante i mesi trascorsi a Beira mi sono addentrata nella complessità progettuale, nel provare a capire come migliorare gli interventi, renderli sostenibili. Ho capito in maniera più profonda il valore della ricerca sul campo. Beira non è l’ultimo miglio. Non si è isolati, ma si è inseriti in un gruppo con cui si vive quotidianamente e ci si confronta. Ed è stato proprio lo scambio con i colleghi, specie quelli mozambicani, la ricchezza più grande. Hanno condiviso con me anche episodi della loro vita, gioie e delusioni. Per poi parlare insieme delle sfide e del futuro del Paese. Alla fine rimane molto di più quello che ho imparato di quello che ho dato».