Quando ci vuole più di un’intuizione
Da Tosamaganga Stefania, specializzanda in ostetricia e ginecologia, ci racconta come solo le competenze del personale sanitario unite alla possibilità di intervenire tempestivamente possono salvare la vita a una mamma e al suo bambino.

Mancano cinque minuti alle sette, dopo un pomeriggio di lavoro molto intenso, mentre sto uscendo dall’ospedale, ricevo una telefonata, in un mix concitato di swahili e inglese, all’altro capo del telefono mi viene chiesto di fare un’ecografia d’ urgenza ad una donna in gravidanza. I miei passi si fanno veloci per ripercorrere il corridoio all’indietro, getto lo zaino in un angolo, e prendo subito in mano l’ecografo: valuto la posizione cefalica del feto, la placenta e la frequenza cardiaca fetale regolare. Ma qualcosa non torna: non vedo la parete anteriore dell’utero, ben delimitata, come dovrebbe essere, quando misuro il liquido amniotico. Non la vedo. Ricontrollo il battito fetale: 100 bpm. Sospetto una rottura d’utero, una grave complicanza dei travagli successivi a taglio cesareo, perché l’utero ha una cicatrice. Dico a voce alta ai miei colleghi: “Emergency C section”. Tutti si attivano, la sala operatoria viene predisposta, l’infermiere trova subito l’accesso venoso per stabilizzare la mamma. Mayenga, medico di turno, spiega in swahili alla paziente che c’è un problema grave, bisogna intervenire immediatamente con un taglio cesareo per salvare la sua vita e quella del suo bambino.
La mamma ascolta in silenzio, resta calma, annuisce e si affida al personale, ringraziandoci tutti .Corriamo in sala operatoria, attivo il team pediatrico, di cui fa parte la mia collega Francesca, in modo che siano presenti a pronti ad intervenire per un eventuale rianimazione neonatale. Nell’attesa dell’anestesia, mi chiama Maziku, mio tutor e ginecologo, che non era di servizio in ospedale quel giorno per impegni di lavoro in un’altra città. Mi chiede se sono sicura che sia davvero necessario il taglio cesareo. Non lo sono, perché la paziente non ha in atto un sanguinamento e i parametri vitali sono nella norma, ma mentre eseguo l’ecografia, ho un presentimento che si tratti di una rottura dell’utero. Così decidiamo di procedere con il taglio cesareo, all’apertura dell’addome si conferma il mio sospetto: estraiamo di fretta il bimbo che viene affidato alla pediatra, grazie alla presenza dell’isola neonatale in sala operatoria.
L’utero per fortuna non sanguina troppo, la rottura non ha coinvolto i vasi maggiori. Il medico riesce a suturarlo, evitando così alla paziente un’isterectomia che la priverebbe della possibilità di avere altri figli. Durante l’intervento, la donna riceve una trasfusione di sangue, fondamentale in questi casi. La pediatra porta il neonato in Nicu, la Neonatal Intensive Care Unit, dove ha la possibilità di ricevere ossigeno e cure adeguate. È vivo, sta bene.
Il mio collega, terminato l’intervento, si ferma e mi prende la mano dicendo che anche grazie al mio intuito, la madre non ha perso il suo bambino e ha conservato il suo utero. Ma so che è anche merito suo e delle sue competenze chirurgiche e degli strumenti che questa volta abbiamo avuto a disposizione per intervenire. A Tosamaganga, come in tutta la Tanzania, in sala parto è possibile salvare vite. E si prova a farlo in ogni modo possibile. Come quella sera, grazie all’impegno di tutti.