Cuamm Piemonte

la salute è un diritto, battersi per il suo rispetto è un dovere

Voci dall’Angola – I racconti di Beatrice

Dopo i primi mesi in Angola, ci arrivano via email le prime righe scritte da Beatrice, l’ostetrica piemontese partita per seguire un progetto di Medici con l’Africa. Le pubblichiamo in questa pagina. Dopo i primi mesi in Angola, ci arrivano via email le prime righe scritte da Beatrice, l’ostetrica piemontese partita per seguire un progetto

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    angola

    Dopo i primi mesi in Angola, ci arrivano via email le prime righe scritte da Beatrice, l’ostetrica piemontese partita per seguire un progetto di Medici con l’Africa. Le pubblichiamo in questa pagina.
    Dopo i primi mesi in Angola, ci arrivano via email le prime righe scritte da Beatrice, l’ostetrica piemontese partita per seguire un progetto di Medici con l’Africa. Le pubblichiamo in questa pagina.

    GIUGNO 2013
    Ormai sono qui con loro da quasi un anno. All’inizio mi sembrava tutto disordinato e senza regole…nessun segnale che potesse farmi capire come comportarmi e dove fossi finita.

    Ma non è così. In questi mesi li ho osservati; a volte senza farmi notare, altre volte sono stata esplicita e ho fatto domande per cercare di capire la gente che mi sta intorno, che tutti i giorni vedo in ospedale o per la strada.

    Alcune “scoperte” mi sono servite per non apparire maleducata; altre mi hanno permesso di capire alcune usanze o comportamenti che mi sembravano esagerati; altre ancora mi hanno aiutata a far cambiare alcune pratiche dannose, senza risultare offensiva. Dopo undici mesi, potrei scrivere un piccolo manuale…

    Se tagli i capelli ad un bambino prima che compia un anno, il bambino non camminerà mai; fino a tre anni, i bambini vanno lavati tre volte al giorno: mattina, pomeriggio e sera. Dopodichè, non so per quale motivo, è lecito lasciarli allo stato brado e farli diventare dei piccoli cumuli di sabbia, terra e fango ambulanti!

    I neonati vanno vestiti e coperti con innumerevoli strati di stoffe e coperte indipendentemente dalla temperatura esterna: solo a 4 mesi acquisiscono il diritto di essere legati e trasportati sulla schiena e di essere vestiti con indumenti adattati al clima. Quella che noi chiamiamo “fontanella” del neonato, per loro è l’ingresso del “fetiço”, il malocchio, quindi bisogna coprirla con una pasta fatta di terra e sapone…è impossibile incontrare un bimbetto che non sia stato accuratamente impiastrato con questo rimedio tradizionale.

    Al mercato tutto si vende sfuso: l’unità di misura è la tazzina, il bicchiere e la latta. Ognuna di queste ha un prezzo: quando compri qualcosa, non devi dire quante tazzine vuoi…ma il costo totale della merce che ti serve. Le mie note carenze in matematica, mi hanno permesso di capire questa cosa solo dopo mesi che ero qui!

    Fino a mezzogiorno il saluto è “bom dia”, dopo bisogna dire “boa tarde”. Gli africani sono perennemente in ritardo, ma se a mezzogiorno e un minuto saluti dicendo ancora “bom dia”, loro ti guardano male e ti correggono!

    Con le persone anziane e con molte donne, è difficile avere un dialogo in portoghese perché parlano solo il dialetto; se provi a parlare in portoghese, ti guardano con la faccia da: “che stai dicendo?!”, se ti ingegni e spari qualche parola in kikongo, scoppiano a ridere perché non se lo aspettano.

    Un angolano difficilmente sposerà una donna bianca perché questa non sa fare il funji, il piatto tipico (una specie di polenta) e questa cosa è un disonore che la famiglia non potrebbe accettare.

    Se chiedi ad un uomo quanti figli ha, ogni giorno ti dirà un numero diverso!

    Se chiedi ad un bimbo di otto anni quanto fa 7×9 non lo sa, ma puoi stare certo che lo stesso bambino non sbaglierà MAI a darti il resto mentre vende al mercato.

    Tutti i gemelli che nascono hanno lo stesso nome, indipendentemente dal sesso. Il primo si chiama Nzusi e il secondo Nzimba. Anche i figli che vengono dopo i gemelli hanno nomi predefeniti: non li ricordo tutti…ma il primo dopo i gemelli si chiamerà Lando.

    Se piove e dici o pensi: “speriamo che smetta di piovere”, qualcuno della tua famiglia morirà il giorno dopo.

    Hanno un’ intelligenza pratica che noi ce la sogniamo: aggiustano tutto e non buttano via nulla. I bambini costruiscono giocattoli con l’immondizia. Gli adulti riutilizzano TUTTO, nulla si spreca.

    Se devi fare il bagno in un fiume che non è quello del tuo villaggio, devi chiedere il permesso al capovillaggio…altrimenti un coccodrillo ti mangerà. A volte al posto del coccodrillo ci sono le sirene. Le sirene sono donne bellissime (bianche, ovviamente) con la coda di pesce che escono solo di notte…se le guardi muori. Tutti credono alla sirena, non c’è storia. È impossibile convincerli del contrario. E ognuno di loro ha avuto problemi con le sirene…anche se non le hanno mai viste!

    Potrei continuare per ore. Alcune di queste credenze fanno sorridere, altre ricordano alcune cose che facciamo anche noi…altre invece sono dannose e spesso mortali.

    So che ogni tanto mi incanto ad osservarli perché, come tutti gli uomini, fanno o dicono delle cose così lontane dalle nostre che c’è da rimanere meravigliati.

    Sono attratta e affascinata da ciò che si impara solo osservando perché è un sapere così legato all’essere uomo, che è difficile da spiegare a parole. E questo sapere è impresso nel nostro DNA…solo che noi ci siamo persi dei pezzi…o li abbiamo mutati.

    Lo dice anche Jovanotti, “il sangue è sempre rosso, indipendentemente dalle vene”.

    Beatrice

    APRILE 2013

    Tutti i venerdi vado a Nsosso dove c’è un posto di salute, a circa 40 km di distanza da Damba. 
    Ogni volta mi aspettano dalle 30 alle 50 donne incinta che vengono per controllare che la loro gravidanza stia procedendo bene. Ovviamente i mezzi a mia disposizione sono basilari: insieme all’infermiera si valuta la crescita del feto, che sia presente il battito del bimbo e gli eventuali fattori di rischio che nel corso dei nove mesi possono svilupparsi e far diventare la gravidanza “a rischio”. 
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    Annottiamo tutto su una scheda che resta alla donna e che ci viene presentata ogni volta che la futura mamma si presenta al controllo. Per me è sempre bello incontrare queste donne che fanno un sacco di figli, che faticano a capire le domande che faccio loro, che sorridono quando le sgrido perché hanno perso/stracciato/sporcato la loro scheda e che ogni volta mi sorprendono con un sorriso, una frase o un abbraccio.
    Venerdi scorso quando sono partita da Damba c’era una pioggia fortissima. Per un attimo ho pensato che potevo non andare perché non si sarebbe presentata nessuna donna. Invece al mio arrivo c’era già un gruppetto che mi aspettava; abbiamo finito prima del solito ma era impossibile tornare a casa a causa della forte pioggia. Mentre aspettavo che spiovesse, sono entrate tre ragazzine che conosco bene: Lucia, Ana e Luiza. Hanno 13, 14 e 16 anni; sono tutte e tre al sesto mese di gravidanza e si sono sempre presentate puntuali al controllo ogni mese…anche oggi che diluvia e loro sono tremanti per il vento freddo e completamente zuppe per la pioggia. Scopro che vengono dallo stesso villaggio e che hanno fatto 17 km a piedi sotto l’acqua per essere lì. 
    Dopo la visita, decido di riportarle a casa anche se stanno dalla parte opposta rispetto alla mia direzione. In macchina accendiamo il riscaldamento (!) e mentre torniamo verso le loro case, parliamo e ridiamo. Mi chiedono quanti figli ho io (aiuto), mi raccontano tutte le vicende ostetriche delle donne delle loro famiglie, mi spiegano le loro credenze sul parto per capire quale sia il mio pensiero. Sembra di essere in gita con i ragazzini delle medie per l’euforia e la spensieratezza che si respira nella macchina.
    Dopo circa venti minuti di macchina, arriviamo al loro villaggio. Scendono dalla macchina, ringraziano e mi salutano dicendo: “Ci vediamo tra un mese!”. Le guardo allontanarsi tutte e tre insieme, saltellando tra una pozzanghera e l’altra. Davvero sembrano scese dal pullman della gita di terza media. Ma tra un mese saranno mamme. 
    Anzi, Mamme. Ne sono certa.
    Beatrice


    MARZO 2013

    “La sfida è arrivare all’ultimo miglio, là dove nessuno vorrebbe andare, tra la polvere, il vento, la terra sporca di sudore”.
     
    È la frase che sta scritta sulla copertina dell’agenda CUAMM. L’avrò letta centinaia di volte perché l’agenda si trova sulla scrivania che c’è in ufficio e più volte al giorno il mio sguardo incrocia quella scritta.
     
    Non mi sono mai soffermata più di tanto sul significato di quelle parole, fino ad oggi.
     
    Stamattina ero in ospedale, quando arriva un tizio a dire che a Missao Ndemba (30 km di distanza) c’è una donna che non riesce a partorire e ha bisogno dell’ambulanza. Lo dico a Paolo che sta operando e mi dice che l’unica ambulanza è già uscita a prendere un’altra persona. Che si fa?
     
    Decido di prendere l’auto e andare a recuperare la donna; viene con me un’infermiera e il signore che è venuto a chiedere aiuto.
     
    Arrivati al posto di salute, troviamo una donnina sofferente per le contrazioni e per la strada a piedi che ha dovuto fare per arrivare fino a lì. Sono le 9 del mattino e lei ha camminato 4 ore nella notte prima di incontrare il primo posto medico. La visito e capisco che il bambino da solo non ce la farà mai ad uscire…in più il battito del cuore del piccolo è davvero troppo basso.
     
    Cerco di avvisare Paolo ma il telefono non prende. Dico all’infermiera (e qui c’è stato un momento di sconcerto perché stavano mettendo la donna nel cassone…per non sporcare i sedili)di fare salire la donna sulla macchina e intanto spiego alla parente che bisogna assolutamente andare in ospedale. Partiamo verso Damba e mi fermo solo un secondo nell’unico punto in cui prende il telefono, per avvisare che c’è da fare un taglio cesareo.
     
    Quando arriviamo tutto è pronto (quasi mi sembra di essere in Italia!) e la donna entra immediatamente in sala operatoria.
     
    Silvio (l’altro medico) mi aiuta a rianimare il bambino e quando finalmente il piccolo apre gli occhi ed emette il primo vagito gli dice: “Eh no bambino, non ci guardare così…non è colpa nostra se sei nato in Angola!”
     
    Si scioglie la tensione e finalmente possiamo fare tutti una bella risata.
     
    Oggi questa donna e questo bimbo hanno percorso l’ultimo miglio insieme a noi.
     
    Ora so cosa vuol dire.

    GENNAIO 2013
    Medici CON l’Africa CUAMM.

    Non è medici IN né medici PER.

    Ci sono giorni in cui questa piccola preposizione pesa come un macigno sul mio lavoro, sul mio essere qui.

    Essere CON l’Africa richiede un grande sforzo perché spesso l’Africa con cui si è costretti a lavorare non è esattamente quella che si immaginava.

    Come quando devi assistere alla morte di un bimbo nato da una settimana perché è stato curato con la medicina tradizionale; quando un giovane malato di AIDS muore da solo perché nessuno, dopo la diagnosi, vuole stargli più accanto; quando una donna ti porta il figlio di cinque mesi gravemente denutrito perché sta ancora allattando il figlio nato prima di questo; quando spiego per la millesima volta all’infermiere che lavora con me che se un cesareo è urgente, non si può perdere tempo; quando se fossi sola, farei in mezz’ora lo stesso lavoro che qui faccio in due ore.

    In queste situazioni davvero mi devo sforzare perché la mia presenza non diventi PER l’Africa: non sono qui per risolvere tutto o per dimostrare di essere migliore di loro o ancora peggio per fare le cose al posto loro. E non sono nemmeno IN Africa, che potrebbe dare l’idea di qualcosa di statico.

    Tutte le mattine mi sveglio e penso a come sarà oggi il mio lavoro CON l’Africa; come camminare con loro nel lavoro e nella vita al di fuori dell’ospedale. 

    Proprio quando il CON inizia a pesare, succede sempre qualcosa che ristabilisce il giusto equilibrio: il sorriso di un bimbo, una mamma che mi viene a cercare per salutarmi prima di tornare a casa, qualcuno che bussa alla porta per chiedermi un consiglio, le donne della casa d’Espera che mi invitano a pranzo.

    Ecco che il CON torna leggero, piacevole e carico di significato…è questa l’Africa CON cui mi piace stare!

    MARTEDI’ 25 SETTEMBRE 2012

    Le donne angolane camminano con un bimbo legato sulla schiena, un altro nella pancia, l’acqua e la legna sulla testa…dietro di loro ci sono sempre almeno altri due bambini che camminano scalzi.
    Le donne angolane vanno al fiume per lavare i vestiti e per farsi il bagno. E quando hanno finito, riempiono i bidoni d’acqua e tornano verso casa.
    Le donne angolane zappano la terra e vendono al mercato ciò che raccolgono.
    Le donne angolane fanno tutte almeno 5 figli: cominciano presto.
    La donna angolana, quando ha partorito si alza in piedi e, se non la fermi in tempo, pulisce il lettino che ha sporcato di sangue prende il suo bimbo ed esce dalla sala parto.
    L’altro giorno sono stata al fiume e ho incontrato una bimba di 10 anni che lavava il fratellino di 4. Seduti, che attendevano il loro turno, c’era una bimba di 5 anni con accanto un bimbo che ancora non camminava.
    Il piccolo si è messo a piangere e così la sorellina l’ha preso in braccio e, cullandolo, l’ha calmato.
    Una piccola donna di soli 5 anni, già in grado di accudire il fratello più piccolo.
    E questa scena si ripete ovunque: in chiesa, al fiume, al mercato, in ospedale.
    E così capisco perché a 15 anni già vogliano essere madri… molte gravidanze capitano, ma molte sono desiderate.
    Lo so che è sbagliato, perché avere un figlio a 15 anni (soprattutto qui) vuol dire giocarsi quella minima possibilità di avere un futuro, di finire la scuola e magari trovare un buon lavoretto.
    Ma poi penso alle donne italiane che mi chiedono come si tiene in braccio un bambino, che vogliono i guanti per cambiare il pannolino del proprio figlio, che chiedono che vestiti comprare per il bimbo che nascerà.
    E anche questo non è giusto.
    Ma sono sincera: guardo spesso con invidia la ragazzina angolana che esce dalla sala parto orgogliosa del suo piccolo bambino.



    MARTEDI’ 28 AGOSTO 2012


    Manuel ha quattro anni e Iaia, sua sorella, ne ha appena tre.
    Li ho “ereditati” da Ilaria, la ragazza che è ritornata in Italia poche settimane fa.

    Ovviamente siamo diventati subito amici e così tutti i giorni, non appena metto piede in casa, me li ritrovo fuori dalla porta. Aspettano un biscotto o una banana per fare merenda…
    Col tempo Manuel ha anche iniziato a parlarmi: facciamo grandi discorsi di cui capisco ben poco perché è ancora piccolo, ma ci divertiamo un sacco.

    Ormai sono certa che al posto degli occhi Manuel abbia in realtà dei raggi X, perché non appeno apro la porta di casa, lui guarda dentro e in pochi secondi riesce a chiedermi ciò che vede in giro: un uovo, un pezzo di pane, un pomodoro…
    Quando non sono davanti alla mia porta, i due fratellini passano la giornata a frugare nell’immondizia di casa mia, delle suore e del prete. Raccattano ogni cosa non sia completamente distrutta; spesso li vedo giocare con i vasetti dello yogurt che ho buttato il giorno prima o con la latta di passata di pomodoro. Sono dei piccoli maghi del riciclo nonostante io abbia già detto loro mille volte che non devono toccare quelle cose.

    La loro mamma è molto giovane ma a causa di una malattia è diventata cieca. L’ho conosciuta due settimane fa; era domenica pomeriggio, io avevo appena finito di mangiare e ho sentito che le due piccole pesti erano fuori dalla porta. Ho aspettato un attimo, ma poi sono uscita e così ho visto che avevano portato anche la mamma. Lei mi ha semplicemente detto: “Abbiamo fame”. 

    Non sapevo che rispondere. Sono rimasta senza parole cercando di formulare un pensiero che potesse avere senso. Non è facile sentirsi dire una cosa del genere e sicuramente non era stato facile per lei avere il coraggio di dirlo.

    Le ho preparato una borsa con un po’ di farina, pomodori e tonno. Le ho spiegato che io non posso distribuire cose da mangiare perché altrimenti tutti sarebbero venuti a chiedere
    qualcosa, che rappresento un’organizzazione e che tra un anno sarei tornata a casa. Lei mi ha ascoltato e mi ha ringraziato ma non mi sembrava avesse capito il mio discorso.

    Ho passato la settimana a pensare a quella frase e a quell’incontro; ho perfino chiesto consiglio in Italia. Poi un pomeriggio ho deciso di andare a vedere la loro capanna: quando sono arrivata, Iaia stava lavando la pentola fuori dalla porta con un po’ di acqua e sabbia. Sono rimasta ferma a guardarla fino a quando Manuel si è accorto del mio arrivo e ha cominciato a saltellarmi intorno. Ho salutato la mamma, dato un’occhiata alla casetta e parlato un attimo coi vicini di casa. 

    Manuel ha voluto riaccompagnarmi indietro. Non appena ho aperto la porta mi ha chiesto: “Mi dai quel panino?” e io gli ho detto: “Quel panino è mio, ne ho solo uno. Come facciamo?”

    “Lo dividiamo” mi ha risposto.

    Lì ho capito che tutti i miei dubbi non avevano senso. Starò qui un anno e per questo tempo farò ciò che posso per loro e penserò come loro: un giorno alla volta.


    MERCOLEDI’ 1 AGOSTO 2012


    Sono le 16,30 e io sono nel piccolo ufficio CUAMM accanto alla casa di Ilaria che è in giro a salutare tutti perché domani è il suo ultimo giorno a Damba.

    Ilaria mi chiama al telefono per dirmi che c’è una donna da andare a prendere a circa 30 km; si trova in un “posto di salute” (una specie di ambulatorio generico nei vilalggi più lontani dall’ospedale) e secondo l’infermiere sta facendo troppa fatica  a partorire.

    Dico a Ilaria di recuperare dei guanti, la cassettina dei ferri per il parto e lo stetoscopio per sentire il battito fetale…l’aspetto sulla strada.

    Dopo pochi minuti sono sul Land Rover con l’autista e Ilaria che è felice di vedere un parto; io le dico che spero che sia un bel parto, visto che non ne ha mai visti. La strada asfaltata ci porta in fretta al villaggio; l’infermiere ci aspetta fuori dalla casupola adibita e ci invita ad entrare.

    È preoccupato perché non capisce cosa stia succedendo…io mi limito a dire che è stato bravo ad avvisarci. La donna è in realtà una ragazzina stesa su un lettino, che si lamenta per i dolori. Non parla portoghese ma solo il dialetto locale; l’infermiere ci aiuta a tradurre: dice di essere al nono mese, non ha mai fatto visite pre-natali ed è il primo figlio. A me la pancia sembra troppo piccola per essere a fine gravidanza, cerco il battito fetale e non lo sento…Lo dico a Ilaria, ma dentro di me spero che sia dovuto alla mia scarsa dimestichezza con lo stetoscopio “antico” e non elettronico a cui sono abituata in Italia. La visito e capisco che il parto è imminente.

    Non so bene che fare perché so che il bimbo tra poco nascerà, ma diversi elementi mi fanno decidere di caricarla in macchina. Sale anche la futura nonna. Io mi metto dietro con lei perché ho paura che nasca prima dell’arrivo in ospedale. La macchina corre veloce, la ragazzina si aggrappa alle mie gambe e mi guarda…io non so cosa dire, non parlo il suo dialetto ma spero con tutto il cuore che capisca che sono lì per lei. A pochi metri dall’ospedale inizia a spingere e io mi preparo alla nascita…il bimbo è podalico e nasce morto. È morto da giorni nella pancia della mamma.

    La ragazzina mi guarda e io so cosa mi chiede con lo sguardo perché conosco quell’espressione che è universale: sta bene il bimbo?

    No. Non sta bene. Come te lo posso dire che non parlo la tua lingua? Come posso spiegarti questa cosa? Ci guardiamo per qualche secondo.
    Guardo Ilaria e anche lei resta in silenzio. 

    La nonna, invece capisce subito e inizia un lamento che fa capire alla ragazza cosa sia successo. Arriviamo in ospedale, scendiamo e andiamo in sala parto per ciò che resta da fare. Avvolto il bimbo in uno dei loro panni ma non so bene cosa fare…lo prenderà la nonna.

    Cerco di capire cosa devo fare. Se fossi in Italia dovrei iniziare a scrivere montagne di carte e documenti. Qui no. Qui è “normale” che i bambini nascano morti. Fuori è buio e noi dobbiamo tornare a casa. 

    Ma prima di andare voglio assicurarmi che la ragazzina abbia capito cosa le sia successo. E allora con Ilaria cerchiamo qualcuno che le traduca in dialetto le cose che voglio che sappia. Che non è colpa sua… che è stata brava ad andare in un posto di salute al momento del parto ma che la prossima volta deve fare le visite prenatali…che è giovane e sicuramente avrà altri bimbi.

    Mi sorride e io le sorrido. So che ha capito. Altro non posso fare.