Wolisso, Etiopia, aprile 2013
di Federico Calia
medico di salute pubblica

 

Ogni giorno, il mio lavoro sul territorio mi porta lontano dall’ospedale di Wolisso. Mi mette in contatto con l’ultimo miglio, le persone più ai margini. Ricordo una volta, eravamo a fare una supervisione in un Posto di salute, ovvero un luogo in cui si fanno le vaccinazioni, le visite pre-natali, la formazione del personale locale. Si trovava a 10 chilometri dal Centro di salute, un “ambulatorio” un po’ più strutturato, dove spesso ci sono una sala parto, un’ostetrica e dove è possibile anche partorire.

Mentre eravamo in questo Posto di salute arriva un ragazzo, di corsa, chiedendoci aiuto per sua sorella in travaglio già da due giorni e non riusciva a partorire. Sperava che con la macchina la portassimo nel Centro di salute dove c’era l’ostetrica. La visitiamo e la carichiamo in auto.

Ci impieghiamo 40 minuti per percorrere 10 chilometri di strada sconnessa e dissestata e ad ogni buca è un nuovo gemito e dolore.

Finalmente siamo nel Centro di salute, l’ostetrica la visita e manda il marito a comperare una bottiglia di aranciata. Chissà perché questo gesto mi è rimasto così impresso. Mi chiedevo il senso: per festeggiare la nascita? Come premio per tanta fatica? Come “energizzante” o cosa? Capiamo che la situazione è sotto controllo e ritorniamo al nostro lavoro. Il giorno seguente, telefono al Centro di salute. Mi dicono che la donna, due ore dopo l’arrivo, aveva partorito, un bel bambino, sano. L’avevano già dimessa e lei, con il suo fagottino, aveva ripreso la strada per tornare a casa, a piedi, dopo due giorni di travaglio e tante ore di trasporto fortuito.

Quanta sofferenza, ma anche quanta dignità in quella donna.

Due sono le domande che mi porto dentro. A cosa è servita l’aranciata? È consuetudine in Etiopia darla alle donne in travaglio. Dà loro zuccheri ed energia. La seconda:

ma se quel giorno non fossimo arrivati lì, in quel villaggio sperduto, con l’auto che ne sarebbe stato di quella donna e del suo bambino?

(brano tratto da èAfrica n.1 2013)