Cuamm Trentino

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IL RICHIAMO DELL’ANGOLA VENT’ANNI DOPO

Dopo essere stata a Uige nel 2003, la Dottoressa Alberta Valente è tornata in Angola la scorsa estate. Scledense, laureata in Medicina e Chirurgia a Padova dove si è specializzata in Pediatria e Neonatologia. Con il Cuamm è già stata anche in Ruanda, Etiopia, Mozambico e Repubblica Centrafricana

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di Alberta Valente

PPWS2708 24 Giugno 2021: dopo una corsa a ostacoli tra   visti, permessi, moduli, tamponi, finalmente è   ancora Africa, anzi, è ancora Angola. Ci sono   tornata dopo quasi vent’anni, non però al Nord,   lussureggiante e fertile; questa volta al Sud, a   Chiulo. Altra Africa, altro paesaggio, arido, al   confine col deserto, arbusti ingialliti, baobab e   termitai, qualche capra, poche pozze d’acqua   quasi asciutte. Eppure è sempre lei, l’Angola; non è nemmeno il Paese più bello che ho visto ma riesce ad attirarmi come una calamita. Ho sempre avuto la sensazione di essere venuta via la prima volta lasciando qualcosa in sospeso ed ho sempre desiderato ritornarci quasi a voler chiudere un conto lasciato aperto, o più semplicemente per ritrovare quella parte di me stessa che era rimasta là.

La porta d’ingresso per l’Angola per noi di Medici con l’Africa-Cuamm è Luanda, la capitale: sempre più estesa, più caotica, più moderna. Ormai trovi di tutto, anche negozi e supermercati che non hanno nulla da invidiare a quelli dei Paesi occidentali.

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A Luanda sono andata al cimitero di Camama a  trovare Maria, a fermarmi sulla sua tomba. Molti ricordi  angolani sono legati alla sua persona: pensare a lei mi  dà coraggio.

Ancora un ultimo volo fino a Ondjiva, capoluogo della provincia del Cunene, e poi un pezzo di strada scorrevole e asfaltata fino a Chiulo (non era certo così vent’anni fa). Ti aspetteresti un villaggio o una cittadina, invece è una località il cui fulcro è l’Ospedale diocesano dove lavora l’équipe di Medici con l’Africa-Cuamm, in affiancamento al personale e ai giovani Medici locali presenti da qualche anno.

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 Eva, ricoverata nel reparto per malnutriti. Quasi quattro   anni e 7 kg di peso. Il suo sguardo dimostra tutta la grinta   che ha, infatti è riuscita a vincere la sua battaglia contro la   malnutrizione

 

In Ospedale vado subito a prendere visione del mio posto di lavoro: la Pediatria. Sono passati vent’anni eppure non sembra cambiato niente. Mi ricorda la Pediatria di Negage e di Uige, al nord del Paese: stessa confusione, stesso disordine, stesso via-vai, infermieri sempre troppo pochi, medicine che non si trovano, apparecchiature fuori uso. La prima reazione è di delusione mista a un po’ di rabbia, ma molto presto tutto si stempera davanti ai volti delle mamme e dei bambini. Anche loro non sono cambiati: stessi sguardi misti di sofferenza e di speranza. Ti chiedono di prenderti cura di loro, anche senza parlare. A volte basta poco: un sorriso, un contatto fisico con la mano e senti che inizia una relazione dove vorresti dare tutto per poter consegnare a ogni mamma un bambino guarito e felice. Non è sempre così: a volte ne esci perdente, vai a sbattere contro la tua impotenza e ti sembra di aver tradito la fiducia di quella mamma. Inutile dare la colpa al laboratorio che non funziona, ai farmaci insufficienti, al personale a volte latitante: è la realtà di questi posti, dell’ultimo miglio, come si dice al Cuamm, una realtà che si accanisce sempre sul più debole e il più povero. La cosa straordinaria, però, è che spesso sono proprio loro, queste madri provate dal dolore, che ti tolgono dal tuo stato di sconforto; magari alla fine sono anche capaci di ringraziarti. Non sai perché dato che il loro bambino è morto, sai solo che ti ridanno la speranza di andare avanti, di continuare il tuo lavoro nonostante tutto.

 

Dina (destra) e Grazia (sinistra)  con le loro mamme, due donne  molto diverse e con storie diverse. Durante la degenza però hanno  condiviso le stesse paure per i  loro piccoli, prematuri e di basso  peso (< 1500g) ma anche tanta  speranza. La Dottoressa Valente  (centrale) le ha dimesse  dall’ospedale assieme, il giorno  prima della partenza per l’Italia.

Io ho una specie di deformazione professionale che mi deriva dai molti anni lavorati presso la Neonatologia del S.Chiara di Trento. Già fin dalle prime esperienze africane, quando arrivavo nell’Ospedale dove dovevo lavorare, andavo in cerca dei neonati: dov’era la Sala Parto, dov’era la Maternità, dove  e come venivano ricoverati se stavano male. La maggior parte degli Ospedali africani, soprattutto quelli non particolarmente grandi come Chiulo, non ha una Neonatologia. I piccoli stanno sempre con le loro madri, nello stesso letto, in Maternità. Non c’è del personale dedicato e sono le stesse madri ad accudirli e sorvegliarli. Solo quando si aggravano vengono ricoverati in Pediatria, spesso assieme a bambini più grandi e con le patologie più disparate. È ovvio che questo si traduce in un aumento della già elevata mortalità neonatale. Sono sempre stata convinta che la Neonatologia sia un campo dove si possono ottenere risultati significativi con l’applicazione di buone pratiche, sostenibili e appropriate per Paesi a basse risorse. Il parto ben assistito, la prevenzione dell’ipotermia con il pelle a pelle madre/bambino, il sostegno all’allattamento materno precoce, le vaccinazioni ecc. possono fare un’enorme differenza. Le evidenze di questi ultimi anni lo dimostrano. Non servono incubatrici di ultima generazione, respiratori, apparecchiature complesse, costose e difficili da gestire. Eppure a volte ho avuto l’impressione che si stia facendo strada, anche tra il personale locale, l’idea che i progressi in campo sanitario siano legati più alla tecnologia che non all’attenzione competente ed empatica al malato.

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 Dina Cesar: piccola e prematura, nata a   domicilio. È stata portata in ospedale dalla   mamma dopo qualche giorno. Ora sta bene;   avvolta in una calda copertina e con in testa il   berrettino delle nonne trentine, può finalmente   dormire sonni tranquilli.

A Chiulo mi sono concentrata molto sui neonati; forse per questo ho toccato con mano quante morti si sarebbero potute evitare. Anche qui è inutile prendersela con un’organizzazione ospedaliera carente o con la scarsità di risorse. Alla fine è sempre quel maledetto ultimo miglio che gioca il ruolo più importante: quello che separa le donne dall’ospedale e non permette di arrivare in tempo in caso di parti complicati. Medici con l’Africa-Cuamm ha cercato di ridurre queste distanze costruendo la Casa d’espera (Casa d’attesa) dove le donne che abitano più lontano possono passare l’ultimo periodo della gravidanza alloggiando vicino all’Ospedale.

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La mamma di questa bambina doveva occuparsi  della figlia più grande ricoverata per una ustione  grave. Si è inventata una culla improvvisata ma  confortevole per tenere al sicuro la piccolina.  Ingegnosità delle mamme africane.

Eppure molte ancora partoriscono in casa con mezzi di fortuna, con la suocera come ostetrica, troppo povere per permettersi un mezzo di trasporto che comunque non sempre è disponibile o troppo sottomesse per poter decidere della loro vita. Arrivano in ospedale dopo uno o due giorni con il bambino in braccio, avvolto in pochi stracci, sottopeso o prematuro, incapace di alimentarsi o di respirare adeguatamente. A volte è troppo tardi, ma altre volte, quasi  miracolosamente, riesci a tirarlo fuori dalla criticità: momenti di pura gioia, nostra e della mamma.

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 Alessia, che ha lavorato con me a Chiulo, è una   JPO specializzanda in Pediatria. Con lei c’è stata   molta sintonia e si è creato un rapporto di amicizia.   L’abbraccio a questo bambino va oltre le normali   cure mediche ma esprime coinvolgimento,   protezione e tanto affetto.

 

A Chiulo mi sono ritrovata spesso a “brontolare” anche fino ad arrabbiarmi per i disservizi, le inefficienze, l’indolenza di una parte del personale; eppure, al di là di tutto questo, mi sono chiesta come fosse possibile che alla fine desiderassi rimanere e ancora oggi mi chiedo perché ci penso tanto e perché vorrei essere ancora là. Come ho scritto all’inizio, sono ritornata in Angola per ritrovare quella parte di me stessa che ci avevo lasciato. Credo di averla ritrovata, ma una cosa è certa: non è ritornata con me in Italia, è rimasta ancora là e credo ci rimarrà a lungo.